Piero Calò è nato il 7 maggio 1969 a Manduria di Taranto e si è trasferito a Torino nel 1992. Nel 1999 ha pubblicato il saggio Gola profonda - la pornografia prima e dopo Linda Lovelace, (Lindau) un'analisi del cinema "underground" e della rivoluzione sessuale in Italia a partire dagli anni '70.
Il suo romanzo d'esordio, L'occhio di porco, è uscito per i tipi di Instar nel 2010. Nel 2011 ha partecipato alla raccolta di racconti Sangu - racconti noir di Puglia (Manni). A fine 2013 l'autore pubblica il secondo romanzo, La penultima città (Las Vegas edizioni).
Calò ha collaborato con varie riviste cinematografiche e musicali, e con il Museo del Cinema di Torino dove si è occupato di marketing. Attualmente gestisce EMOTICOM, una cartolibreria molto colorata.
Frangetta nera
Di facile aveva solo il nome, Tania, e la frangetta più nera del peccato mor-
tale.
Da quel punto in avanti Tania non era difficile, era un suicidio, e fissarla
a lungo - e potevi solo fissarla a lungo - ti costava la dannazione di don
Paolo, le indagini del maresciallo Ovetto e, a chiudere in bellezza, sei mesi
d'ospedale per mano di Gigione Lorco, suo padre.
Aveva quattordici anni, Tania, e già bellissima se ne passeggiava da sola per
il viale del paese con la schiena diritta e il gonnellino rosso così oscenamen-
te svolazzante che solo un grande coraggio sarebbe riuscito a sollevarlo, e nel
paese si scommetteva allegramente sull'identità del cuor di leone, tra un caffè
corretto e un analcolico con la fetta di limone a mezzaluna.
Non dava confidenza a nessuno, Tania, con la scusa del papà manesco, e
noi rispettavamo il desiderio, un po' per la paura, un po' perché si faceva
più sugo a fantasticare e a fare orecchie da mercante ai moniti di Gesù che
ci voleva brave persone; e per le brave persone pensare il peccato è già com-
metterlo, così tuonava don Paolo dall'altare della domenica e tutti a fare
sissì con la testa. D'altra parte, a lei andava bene così.
Non frequentava la messa, Tania, e l'unica sua concessione alla mondani-
tà era quella passeggiata innocua in mezzo a noi che facevamo chiacchiera
al bar, tra un analcolico e un caffè corretto.
Ne avvertivi l'arrivo in lontananza, un fruscio di membra e gonnellina, e
chi si accomodava il cravattino, chi raddrizzava le spalle, chi si nettava gli
occhiali da sole e chi costringeva la pancia in dentro. Dopo un secolo il suo
corpicino scandaloso, sinuoso e colpevole come quello di un serpente, passa-
va e ci ignorava. Io, quando mi rivolgeva lo sguardo, ed era un caso, zoppica-
vo più del solito, perché sono zoppo. Perché sono zoppo?
Ma questo era prima, e così, quando la vedemmo annegata sul bagnasciu-
ga già mortificato dalle alghe della risacca, tirammo tutti un sospiro di sol-
lievo, e l'unico rimpianto fu quello di una sbirciata a pancia in giù negata in
parte da una pietosa coperta. Zoppico molto ancora oggi, a pensarci.
Gigione, sconvolto, scalciava nell'acqua riscaldata dallo scirocco mentre
prometteva a noi tutti vendette gratis. E noi tutti girammo simultanei la testa
nell'altra direzione, ed era il culo di Tania.
E così, passato il tempo del lutto, vi rendo conto di quest'incubo dello spi-
rito umano, in cui abiezione e abominio fanno insieme minestrone e voca-
bolario, e di cui tutti, io compreso, siamo colpevoli, tranne che per un insi-
gnificante particolare: io sinceramente l'amavo e non lo sapevo.
2
Tania non era più vergine.
Questa prima indiscrezione spezzò i cuori e fece versare qualche lacrima,
chi nei fazzoletti chi nei pantaloni.
Insomma, ci sentimmo tutti traditi da un fellone che, rescisso il tacito
patto di non aggressione, carogna di uno, era passato dal pensiero all'azio-
ne in barba all'onore, al parroco e ai testi normativi penali e civili.
Chi era stato? In quei momenti la Staffa, il micidiale tribunale della chiac-
chiera che creava l'opinione cittadina direttamente dalle seggiole del Bar
Centrale, aveva optato per il buon vecchio don Paolo. Non era lui, insinua-
va inorridito Colluto, che ci fulminava nelle prediche per le nostre sparate
innocenti? Che celiava con disprezzo sul nostro dire senza fare? E poi, prova
delle prove, don Paolo e Tania s'incrociavano molto poco, quindi avevano
senz'altro qualcosa da nascondere.
Io, in cuor mio, don Paolo lo difendevo. Prendevo le parti di quell'omo-
ne grasso, mite e ignorante che conosceva poco la truculenta Bibbia, a
memoria i Vangeli e null'altro. Ammiravo la sua sottomissione alla Legge, e
la Legge era il Libro e il Libro era Dio, mentre io non ne volevo sapere di
Legge, di Libro e di Dio.
«Tu pensi troppo e ti rendi infelice» mi diceva, ed era la frase rituale di
tutte le nostre brevi discussioni, gratuita come la poderosa pacca sulle spal-
le che ogni volta mi ammutoliva. Solo in un'occasione riuscii a controbatte-
re, complice la straordinaria imbottitura di un inverno particolarmente rigi-
do che mi tenne ritto sull'asse. Gli dissi che, al contrario, io pensavo poco, e
lui, per niente turbato da tanta spudoratezza, concluse: «E allora il tuo cer-
vello ti dà scandalo. Il che è anche peggio. Cosa credi? Che Dio sarà indul-
gente per non averlo reciso e buttato lontano da te?» E se ne andò via sod-
disfatto, mollandomi un pestone sull'alluce.
Sì, don Paolo si recava qualche volta a casa Lorco, dove si viveva nel biso-
gno e nel peccato e l'efferato Gigione spendeva tutto in birra e avvocati che
lo riportassero a dormire lontano dalle brande giudiziarie che gli strizzava-
no incessantemente l'occhiolino: furti d'auto, d'appartamento, scippi e, su
tutto, un mare di percosse. Don Paolo si caricava di buone parole, esplicite
minacce dell'Inferno, piccole quantità di frutta, verdura e latte e qualche
soldino di rame.
Tania quegli incontri li evitava e non, come pensavamo alla Staffa, per
qualche affare losco. No, era l'orgoglio della sua bellezza, della sua andatu-
ra diritta, del suo petto quasi formato, della sua frangetta di pece, che la
faceva fuggire da un compatimento che sentiva di non meritare.
La spiavo dal balcone di casa, poggiato al mio inseparabile bastone e con-
centrato a fumare una sigaretta, solo per vederla, non visto, apparire e
immancabilmente scomparire. E ammiravo l'evoluzione dei suoi occhi che
partivano bassi, mortificati, e si alzavano fino al cielo, fino al mio balcone,
fino a quella nuvola di fumo che era l'unica traccia della mia presenza, pron-
ta a eclissarsi prima che potessi incrociare il suo sguardo assassino.
Non riuscivo a guardarla negli occhi, e già per questo ero cosciente che
non l'avrei mai avuta. Ma don Paolo, che idiozia! Quello zuccone, Dio mi
perdoni, aveva a cuore tutti.
3
L'autopsia aveva confermato le chiacchiere: annegamento.
Detto questo, scoppiò la tregua: il comparaggio della Staffa si era trasferi-
to dal Bar Centrale alla chiesa matrice per la funzione mortuaria.
L'abete bianco che la rivestiva ci impressionò tutti e ancor di più Gigione
che sbraitava e colpiva a pugni il legno inerte giurando la vendetta tremen-
da. Don Paolo per un po' lo lasciò fare; poi scese i due gradini che lo sepa-
ravano dalla valle di lacrime e rabbia e lo afferrò dolce ma fermo al collo,
premendo sapientemente il pollice sulla giugulare per fargli defluire un po'
di quel sangue impazzito.
Sconcertato dall'affronto, Gigione si acquietò e abbracciò il bravo sacer-
dote, mentre una fiumana di lacrime gli scendeva finalmente sulla prima
piega della pancia. Non ricordo altro della funzione, quella scena mi com-
mosse e il mio corpo si inumidì; due goccioloni mi stagnarono negli occhi
perché non avevo il fazzoletto e non osavo chiedere un pezzo di carta a qual-
cuno, cosicché dovetti trattenermi. Abbassai lo sguardo e provai a tenere in
equilibrio quella fontana salata e vischiosa, le lacrime e il muco che se ne
voleva fuggire dalle froge. Non rialzai più gli occhi, sapevo che don Paolo mi
stava molto compatendo, lo zuccone!
Buk Festival per editi, inediti e poesie. Scadenza a fine luglio.
Premio Babel per la traduzione per un giovane traduttore letterario italiano. Scade il 30 giugno 2016.